La leggenda di Aiku

Tanto tempo fa, in un villaggio sperduto, nacque un giorno un giovane alboriano. Diversamente dai suoi simili, era molto magro e aveva i capelli bianchi come il latte.

«’Ai’ vuol dire sole e ‘Ku’ vuol dire luna!» gridava sempre ai suoi amici, quando lo schernivano per via dei suoi occhi, di colore diverso: il destro era del colore del grano, l’altro era azzurro chiaro.

Era molto piccolo quando i suoi genitori lo lasciarono in una cesta di fronte all’orfanotrofio e andarono via dal villaggio. Il giovane crebbe nell’istituto, luogo in cui fin da piccolo venne messo a lavorare. Non aveva amici stretti, perché la sua diversità li teneva lontani. C’era solo una bambina che non aveva paura di lui. Si chiamava Yenna, era una piccola alboriana, aveva capelli castani e occhi azzurri e, sebbene fosse figlia di fattori, ogni volta che Aiku scappava dall’orfanotrofio si incontravano e giocavano insieme. Disegnavano i draghi di cui avevano sentito parlare in storie e leggende e facevano finta di essere cavalieri o guerrieri. Di notte, quando nessuno li vedeva, Aiku portava con sé Yenna e si divertiva a farle vedere come apriva i recinti degli animali e a faceva scappare pecore, galline e mucche. Senza farsi vedere, rompeva le catene che tenevano legati i cani e apriva le stalle del signore del villaggio. Era uno spirito libero, ribelle e non riusciva a sopportare nessuna forma di controllo e remissione.

«Prima o poi ti caccerai nei guai», gli diceva Yenna divertita. Fino ad allora, però, non era mai stato scoperto, tanto che nel paese si credeva che operasse un qualche demone o folletto che si divertiva a fare dispetti. Lo stregone del villaggio, un vecchio shike dall’aspetto e dall’indole cupa aveva più volte sostenuto che una strana maledizione aleggiava sul paese, portata da un demone che chiamava “Spirito Selvaggio”.

In quell’epoca lontana, gli elemendraghi, rettili alati feroci come leoni selvatici, venivano venerati come animali sacri e come divinità. Molto spesso, tali bestie uscivano dai confini del proprio territorio e si avvicinavano ai villaggi, attratti dalle pecore nei recinti, dagli odori dei cibi cucinati o anche dai bambini che giocavano ignari. Quando ciò accadeva, essi entravano nell’abitato e, dopo aver cacciato le proprie prede, si aggiravano indisturbati e davano fuoco a ciò incontravano.

Nessuno li aveva mai combattuti né aveva cercato di contrastarli, poiché erano ritenuti animali forti, pericolosi, letali, ma soprattutto divini, cari al dio Dulmhàkk. Perciò, ogni volta che attaccavano, gli abitanti dei villaggi si limitavano a nascondersi, lasciarli fare e poi a ricostruire. L’operato stesso dei rettili veniva considerato un atto divino di depurazione dai mali, che talvolta poteva richiedere sacrifici umani.

Venne il giorno in cui un elemendrago si avvicinò al villaggio in cui era cresciuto Aiku. Egli aveva compiuto quindici anni. Viveva sempre nell’orfanotrofio, ma presto sarebbe dovuto andare via perché troppo grande, così sbrigava qualche lavoretto ogni tanto per cominciare a guadagnarsi da vivere. Passava molto tempo nella fattoria della famiglia di Yenna.

La sera in cui l’elemendrago entrò nel villaggio tutto cambiò. Attratto dai rumori e dalle attività dei paesani, si era avvicinato, fiutando anche l’odore degli animali da pascolo.

Il fato volle che la prima fattoria a cui si avvicinò fosse proprio quella della famiglia di Yenna. La ragazza, durante l’ultima ronda, notò l’ombra vicino al recinto e, spaventata, subito gridò per dare l’allarme.

Il rettile la udì. Entrò nel recinto e sputò fiamme contro di lei e contro la casa. Yenna saltò dentro per cercare di mettersi in salvo. Anche i suoi genitori erano all’interno, al piano di sopra. Come una bestia selvatica, il drago si muoveva veloce nell’oscurità, saltava per raggiungere un punto sempre più in alto e sputare ancora fuoco sull’abitazione. Yenna gridò il nome dei suoi cari, per trovarli tra le fiamme e per soccorrerli. Aiku udì il frastuono. Si affacciò dalla finestra dell’orfanotrofio e vide le il fumo salire dalla casa dell’amica. Saltò fuori, nel cortile, e corse verso di essa. Quando arrivò, il legno esterno dell’abitazione era bruciato e il piano superiore stava per crollare. Sfondò la porta a calci, entrò e gridò il nome di Yenna. Ma davanti a sé vide solo la bestia affamata. Era un Abissino delle Voragini e lo fissava, immune alle proprie fiamme, con occhi cupi e feroci, pronto a divorarlo. Aiku strinse i pugni. Capì che il rettile gli sarebbe presto saltato addosso così staccò un tizzone di legno ardente dal telaio di una porta e lo strinse tra le dita. La bestia saltò per addentargli il collo. Il giovane si scansò di poco, quel tanto che bastò per ferire il rettile a un fianco. Ancora in piedi, il ragazzo guardò il sangue colare dal paletto: aveva appena ferito una bestia sacra, sarebbe di certo stato maledetto per l’eternità. Si voltò e vide, tra le macerie, tre corpi distesi a terra. Riconobbe quello più piccolo e rannicchiato, era quello della sua amica. Un impeto di rabbia sconvolse il suo animo e arse nel suo petto. Guardò il sildrago negli occhi. Tutto era cambiato. In un istante, il rettile non era più il predatore, ma la preda. Il furore ribollì nel sangue del giovane, che gridò e si lanciò nello scontro. L’elemendrago, sorpreso, lanciò delle scosse dalla propria pelle, come avrebbe fatto un anguilla. Aiku sapeva che gli Abissini erano capaci di farlo, ma lo raggiunse comunque con il pezzo di legno e gli squarciò le ali. La bestia, furente, vomitò fuoco sul ragazzo che si scansò ma non riuscì a non essere colpito. Gridò e cercò di ripararsi dietro i gradini delle scale in fiamme. L’Abissino, confuso dall’attacco, non continuò oltre la battaglia. Uscì dalla finestra, scappò e scomparve nell’oscurità.

Il giorno seguente, fu di lutto e sofferenza. Gli abitanti del villaggio piansero la morte di Yenna e della sua famiglia. Aiku era stato ritrovato tra le macerie della casa, svenuto. E poi accadde l’inaspettato. Lo stregone del villaggio riconobbe il sangue del drago addosso al giovane e sul paletto così capì che lo aveva combattuto. Di fronte a tutti, accusò il ragazzo di aver contravvenuto alle antiche leggi sacre e lo accusò di aver portato così morte, sfortuna e distruzione su tutto il villaggio. Aiku tentò di discolparsi, disse che aveva solo cercato di difendere Yenna e la sua famiglia, ma nessuno lo ascoltò. Era volere divino che fossero stati attaccati, questo avrebbe epurato il villaggio dai peccati e dalle sofferenze e quella famiglia era quindi stata scelta dal rettile per essere comunque sacrificata. Aiku non riusciva a credere quello che sentiva e si ribellò. Lo stregone lo accusò quindi di eresia, e disse a tutti che doveva essere posseduto dallo Spirito Selvaggio che aveva causato tanti danni e lo cacciò dal villaggio per sempre, esiliandolo.

Aiku dovette imparare a cavarsela da solo. Non aveva più nulla, non conosceva più nessuno. Il mondo, là fuori, era vasto e inospitale. Le uniche cose che sapeva fare bene erano combattere e cacciare. Per diverso tempo sopravvisse cibandosi di piccoli animali, di pesci e bevendo l’acqua dei torrenti. Un giorno, nei pressi di un villaggio, incontrò un gruppo di mercenari. Proteggevano una carovana che trasportava armi, oggetti, cibo e animali per gli abitanti di un paese poco lontano. Aiku li avvicinò e chiese di poter lavorare con loro: li avrebbe aiutati a proteggere il carico finché non fossero giunti a destinazione. Il capo dei mercenari, vedendo che era un ragazzo giovane e atletico, accettò e gli diede una spada, un arco e un cavallo. Il viaggio proseguì senza intoppi, finché, nei pressi di una foresta che si affacciava su un dirupo, non accadde l’inevitabile. Un elemendrago balzò su uno dei carri che trasportavano cavalli, attirato dal loro odore, e lo dilaniò. I mercenari fuggirono e si allontanarono, dando per spacciato il carico e sperando che la bestia non lo divorasse tutto. Arretrarono tutti tranne Aiku. Il ragazzo riconobbe la bestia: era la stessa che aveva attaccato il suo villaggio e ucciso Yenna. Partì al galoppo contro la bestia che lo vide e sputò fuoco. Il giovane scoccò le frecce contro il rettile e lo colpì. Il sildrago ruggì, ma invece di rispondere all’attacco, finì di distruggere il tetto del carro. Carpì un cavallo tra le zampe e si sollevò in volo. Aiku lo seguì, scoccò un’altra freccia e lo colpì ad un’ala, squarciandola. Stavolta il drago guaì di dolore, lasciò la presa e cadde sul pendio del dirupo con la sua preda. L’impatto fece franare il terreno su cui si trovavano Aiku e la sua cavalcatura, che caddero nel vuoto insieme alla bestia.

Quando Aiku riaprì gli occhi, si trovava sul fondo di un burrone. Del sildrago non c’era traccia. Si guardò intorno e vide che il cavallo con cui era precipitato era morto. Quello che era stato carpito, invece, brucava l’erba. Doveva essere riuscito a nascondersi al drago che, dalle tracce che aveva lasciato, non aveva perso tempo a scalare il precipizio e andarsene. L’animale lo vide e Aiku capì che era ancora spaventato. Si alzò e provò un forte dolore al braccio. Nella caduta doveva essersi rotto. Guardò verso l’alto e vide che le pareti del burrone erano ripide, non sarebbe mai riuscito a scalarle. Forse, in sella al cavallo, ce l’avrebbe fatta. Si avvicinò all’animale che subito corse via. Aiku capì che non era domato. Si sedette quindi a terra e pianse. Non sarebbero mai riusciti ad andarsene da lì.

Passò la notte e all’alba il giovane decise di non darsi per vinto. Afferrò un bastone e lo legò intorno al braccio rotto. Si avvicinò al cavallo con dell’erba in mano. L’animale la mangiò e stavolta non scappò. Il ragazzo avvicinò la fronte al muso dell’animale e ce la poggiò. «Non aver paura», gli disse. «Non voglio costringerti. Se mi aiuterai, insieme usciremo da qui e poi sarai libero.» Il cavallo non protestò. Aiku si avvicinò ai fianchi e gli salì in groppa. Lo accarezzò e lo tranquillizzò. Quando però provò a dargli un calcio al ventre, il cavallo si impennò e cominciò a correre. Aiku, sorpreso, faticò per restare in equilibrio. Il cavallo correva, scalciava e nitriva, ma Aiku era deciso ad andarsene dal fondo di quel burrone. Facendo ricorso a tutte le sue forze, rimase in sella e, invece di frenare il cavallo, decise di spronarlo a correre ancora più forte. L’animale lo fece e percorsero il fondo erboso della voragine più e più volte, finché non capì che il suo cavaliere non voleva costringerlo, ma correre veloce quanto lui, via di lì, insieme. L’animale quindi si calmò, Aiku scese dal dorso, strappò un po’ d’ erba e gliela diede da mangiare. Guardò di nuovo il precipizio da cui erano caduti. Salì in groppa. Passo dopo passo, sul terreno ghiaioso e sdrucciolevole, i due si arrampicarono faticosamente, fino a raggiungere la cima.

Quando ne uscirono, Aiku vide che della carovana non c’era traccia. Evidentemente i mercenari erano scappati e lo avevano dato per spacciato. Così, lui e il suo cavallo, a cui non diede mai un nome, si incamminarono verso il villaggio più vicino. Ma la notte in arrivo fu rischiarata dal bagliore delle fiamme. Un altro villaggio era stato attaccato. Aiku e il suo cavallo corsero per vedere cosa stesse accadendo. L’Abissino delle Voragini, ferito e affamato, aveva attaccato un abitato e lo stava consegnando alle fiamme. Il cadavere di un ezteno giaceva sotto le sue zampe. Aiku scese di sella, si mise l’arco sulla schiena, afferrò la spada col braccio sano e si incamminò verso la bestia. Quando fu vicino, lesse nei suoi occhi la rabbia più feroce e pura. Capì che era ferito. Aveva un’ala rotta e una zampa malandata, non poteva più volare. Ma la sua fame di innocenti non si sarebbe mai saziata.

Aiku incoccò la prima freccia. Col braccio rotto, teso, teneva l’arco, con l’altro tendeva la corda. Lanciò. Il drago schivò  la freccia e corse verso di lui. Scoccò la seconda e lo colpì alla spalla, senza frenare la corsa. Scoccò la terza e lo colpì al torace, ma ormai il rettile lo aveva raggiunto. L’animale saltò e lo atterrò. Aiku pose la spada tra le fauci del drago per non farsi divorare. Gridando per fare ricorso a tutta la sua forza, lo spinse via con le gambe. Il sildrago rotolò a terra. Aiku si alzò in piedi. Il rettile lo guardò e dalle sue fauci colò bava insanguinata. Quando saltò ancora per uccidere, Aiku afferrò la spada e la lanciò. La lama penetrò nella bocca del drago, la trapassò e lo fece cadere a terra, inerme.

Gli abitanti del villaggio uscirono dalle case, ancora intimoriti. Aiku li guardò in faccia uno per uno. Sorpreso, li riconobbe. Camminò verso il centro del villaggio e osservò il cadavere dell’ezteno. Era lo stregone che tempo prima lo aveva condannato all’esilio.

Si voltò verso gli abitanti e disse loro a gran voce: «Non siate vittima delle vostre stesse paure! Gli elemendraghi sono animali, non sono cattivi, ma se non imparerete a difendervi prima o poi mangeranno voi e i vostri figli! Ci sono cose più importanti delle sciocche superstizioni che vi hanno insegnato, ovvero l’amore per i vostri cari! Difendeteli, a costo della vostra vita, oppure, se non ne avete il coraggio, lasciate che qualcun altro lo faccia per voi, senza maledirlo, ma essendogli grati!» Così dicendo, andò verso il cadavere del sildrago, staccò una delle spine dorsali, la più lunga e appuntita, e la portò via con sé. Con essa avrebbe forgiato la spada che avrebbe usato da quel momento in poi. Risalì in sella e si allontanò.

Tra le persone che lo videro andare via si mormorava il nome con cui lo avevano chiamato a lungo, prima di cacciarlo via dal villaggio. «È lo Spirito Selvaggio», sussurravano. «È lo Spirito Selvaggio e ci ha salvati tutti.»

Tempo dopo, nacque un giovane di nome Kil. Egli era stato ripudiato per la sua condotta criminale. Ma era anche un abile artigiano e così, per vivere, decise che da quel momento in poi, invece di rubare, avrebbe creato attrezzi e manufatti da rivendere alle genti dei villaggi dove capitava. Si racconta che un giorno, in una taverna, incontrò un giovane di nome Aiku. Aveva sentito parlare di lui. Era stato il primo ad uccidere un elemendrago. Egli aveva perso molto e si era ribellato, sfidando le credenze popolari della gente. Kil gli disse che altri volevano seguire il suo esempio e combattere le bestie che minacciavano la pace e la tranquillità dei villaggi. Fu così che imparò da lui come cacciare e combattere un sildrago e divenne anch’egli uno Spirito Selvaggio. Col passare degli anni invecchiò, ma divenne un punto di riferimento per le tribù nascenti, un vecchio uomo la cui sola parola era capace di riunire quella gente. Fu così che prima di morire, decise di infondere la sua voce, insieme allo spirito di Aiku che l’aveva ispirata, in un oggetto magico: un corno, da lui intagliato in un grande anemone dei Mari del Nord, il cui suono aveva il potere di far vibrare gli altri corni lasciati ai capi delle altre tribù, non importava quale fosse la distanza che li separava.

Aiku, in sella al suo cavallo, scomparve nelle Terre Selvagge. Nessuno seppe più nulla di lui, ma il suo spirito, insieme alla voce del suo amico Kil, come un’eco, potevano da quel momento in poi, attraverso il canto del Corno degli Spiriti Selvaggi, propagarsi nell’aria, richiamando, se fosse stato necessario, tutti gli Spiriti Selvaggi all’unica adunata a cui nessuno di essi avrebbe mai potuto mancare.»